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La parabola della Ferragni: dalla torre alle stalle

Più si sale in alto più, quando si cade, ci si fa male. Il caso Ferragni, che in questi giorni occupa ossessivamente le cronache, è emblematico. Questi due ragazzi ricchissimi, che parevano poter spaccare il mondo, abituati a vivere nel lusso (ostentatissimo) e a non dover desiderare nulla perché ancora prima di formulare il pensiero se lo sono già regalato, sono l’esempio di come cadendo dall’alto la botta sia tremenda. A volte c’è anche un rimbalzo, che peggiora la situazione.
Dal pandorogate all’uovodipasquagate il passo (o il rimbalzo) è stato tragico. E per due abituati a sentirsi qualcuno solo se esposti (o superesposti) alla pubblica invidia deve trattarsi davvero di una tragedia.
Non me ne sono mai occupata, e avrei preferito continuare a farlo (o non farlo), del fenomeno degli influencer: gente che grazie a capacità persuasive insolite e una furbizia fuori dal comune sa approfittare dello spirito di emulazione (spesso della creduloneria) di tanti polli e tante galline pronti a farsi spennare, e perdipiù con gratitudine.
So che è da vecchi dire che i giovani non hanno valori e hanno bisogno di “idoli” da idolatrare. È sempre stato così, però gli idoli che i giovani d’oggi si sono scelti non hanno, spesso, spessore. La fiera delle vacuità è sempre pronta a sfornare personaggi senza arte né parte che sanno approfittarsi della voglia di sentirsi rappresentato di chi non si è creato una propria identità e la cerca negli altri. Una sorta di incarnazione che si rinnova quotidianamente tramite i social. “Voglio assomigliare a…” invece di “io sono”.
Gli psicologi ci vanno a nozze, con questo fenomeno, che è davvero inquietante. Ormai si vive sui social, tutto viene messo in piazza, perché è così che ci si sente “vivi” e importanti: la propria vita, le proprie ricchezze materiali e le proprie miserie umane date in pasto al pubblico. A volte per niente, se non per una forma di insana vanità, a volte per denaro. Un ostentare inelegante di chi si sente più “in alto” per puro autoriconoscimento più che per meriti riconosciuti da altri.

Qualcuno sta parlando di accanimento verso questa “povera ragazza” che con tanto di recita ben studiata ha chiesto pubblicamente scusa per un “errore di comunicazione”, come da oggi si chiama l’inganno ai danni dei consumatori allocchi. Sarebbe l’invidia per il suo successo e la sua ricchezza a far sì che ora, per un “semplice passo falso”, tutti le diano addosso.
Io stessa, che come dicevo non l’ho mai fatto, me ne sto occupando. E non di certo per invidia o il classico accanimento di chi, appena uno dei suoi idoli cade, dopo averlo mitizzato e osannato è pronto a linciarlo.
Ma devo rispondere a chi, per il fatto che da anni mi impegno nel no profit (vero, non di facciata), si aspetta una mia presa di posizione. Non è facile, quando una donna viene attaccata e da colpevole si fa passare per vittima. Infatti non voglio crocifiggere la Chiara Ferragni privata cittadina, che ha già abbastanza gatte da pelare in questo momento, ma voglio esprimere la mia indignazione verso un personaggio pubblico così influente che, con leggerezza o scientemente, ha sfruttato la malattia dei bambini e la fiducia dei compratori e, in più, ha infangato l’immagine di chi anche a costo di grossi sacrifici fa beneficenza davvero.
E sono ancora più indignata per il fatto che quando ha chiesto scusa (ma solo dopo che è stata sgamata, sennò mica ci pensava..) ha voluto travestirsi da vittima. L’avete vista, no? Le lacrime di coccodrillo, la mise da Chiaretta pentita (avrà chiesto aiuto all’armocromista?), il trucco da struccata, la voce rotta dal pianto (ha avuto quattro giorni per provare la recita): tutto studiato a tavolino dal suo staff.
Credendo, con la promessa di versare un milione all’Ospedale Infantile Regina Margherita (che se non erro è esattamente il cachet versatole dalla Balocco per l’operazione di “beneficenza”), di lavarsi la coscienza. Con qualcuno ha funzionato, tanto che i suoi più strenui difensori la assolvono per la sua generosità. Del resto, anche un tempo bastava pagare per farsi rimettere i propri peccati. La vendita delle indulgenze (cioè la remissione dei peccati passati e futuri ottenuta versando una cifra alla Chiesa) risale al 1517, quando papa Leone X s’inventò la Taxa Camarae, cioè un tariffario che stabiliva il pagamento di una cifra di denaro per ottenere l’assoluzione da peccati gravi già commessi o da commettere in futuro.
Ma vi immaginate che bello? Per qualunque nefandezza abbiamo commesso o pensiamo di poter commettere in futuro, basta pagare qualche soldino e la nostra anima, da qui all’eternità, si ripulisce e torna candida come dopo un ciclo di candeggio in lavatrice.
Chiaramente la nostra Chiara deve aver sentito parlare di questa possibilità di pagarsi l’indulgenza e ha pensato bene di cancellare così, dalla mente dei suoi followers (e soprattutto dei suoi sponsor), l’immagine del pasticciaccio brutto del Citylife (il complesso per poveracci in zona Fiera a Milano in cui vivono i Ferragnez, in un attico di 800 metri quadrati situato in una delle tre torri progettate da noti archistar, dove Chiara e famiglia conducono la loro grama esistenza da lavoratori sottopagati, quando non trascorrono il loro tempo libero dagli impegni lavorativi nella villa appena ristrutturata sul lago di Como).
Qualcuno la ritiene un genio, la Ferragni, perché si è “fatta da sola” e ha un seguito di 30 milioni di follower. Allora, a parte che i follower si comprano o si creano, vogliamo credere che tutti quelli che negli anni hanno cliccato “segui” sul profilo Instagram della Ferragni siano davvero così assidui nel seguire, e per di più quotidianamente, le sue performances sui social e così pronti a comprare il cappuccino vegetale, che è l’ultimo dei prodotti in lancio nella vetrina della “geniale imprenditrice”? Ma sapete a cosa serve mostrare tutti quei milioni di follower? A metterli sul tavolo delle trattative con gli sponsor commerciali per spuntare un compenso più alto: “Io vi porto 30 milioni di follower, voi pagatemi come conviene”. Già, neanche fossero 30 milioni di consumatori… E quello che mi fa specie è che tanti marchi importanti abbiano abbinato la loro immagine a quella dell’influencer (che, adesso che l’ho studiata un po’, è priva di empatia e gronda finzione in tutto quello che fa: possibile che i ragazzini che la seguono non se ne accorgano?) Tanto che persino Della Valle l’ha messa nel consiglio di amministrazione della Tod’s.
Sull’essersi fatta da sola, ragazzi, su… forse vi sfugge che la signora platinata e patinata ha alle spalle uno staff che neanche il presidente degli Stati Uniti, e che di spontaneo e genuino, in quello che fa e dice, c’è un gran poco. Tutto ciò che appare della sua vita sui social ricalca una sceneggiatura scritta dai suoi consulenti. Tanto che mi meraviglio che non abbiano scelto la strategia di scaricare sui suoi collaboratori la colpa di quanto accaduto. Ma forse non sono lettori di Pennac e nulla sanno delle gesta di Monsieur Malaussène, di professione… capro espiatorio.
Mi rendo conto che a parlare di queste cose si rischia davvero di sembrare invidiosi. Ma qui l’invidia non c’entra. Non sono per nulla contraria alla ricchezza, purché non derivi da pratiche illecite o dallo sfruttamento dell’altrui buona fede ma derivi dal lavoro, soprattutto se è un lavoro che dà da vivere a tante famiglie.

In mezzo a questo squallore, mi è venuta in mente un’occasione in cui, alcuni anni fa, sono entrata seppur di striscio in contatto con il mondo patinato di The Blonde Salad, una società dell’impero finanziario messo in piedi dalla Ferragni, o meglio da chi ne ha usato l’immagine e la capacità di catturare le simpatie di ragazzini ai quali le famiglie hanno lasciato lo spazio per inseguire idoli fasulli e moralmente inconsistenti. Un impero che pare valere un centinaio di milioni di euro. Dico “pare” perché sinceramente non ho voglia di perdere tempo ad approfondire se i milioni sono 99 o 101. È sempre una bella cifra.
Ma arriviamo all’episodio in questione.
Anni fa ricevetti una telefonata dall’addetta stampa di TBS Crew (The Blond Salad, appunto), la quale mi disse che apprezzavano molto l’impegno del Fondo Amici di Paco a favore dei cani e dei gatti senza famiglia e che avevano perciò deciso di farci una donazione. Ottimo, pensai, se ci hanno notati loro, che sono una potenza, vuol dire che stiamo lavorando bene. Smisi di essere così euforica quando la mia interlocutrice mi spiegò che avevano pensato di inviarci un lotto di cappotti in cashmere per cani. Della collezione Chiara Ferragni, ovviamente. Già il fatto che si producessero cappottini per cani in cashmere mi lasciava un po’ perplessa, ma visto che a caval donato non si guarda in bocca acconsentii, dicendomi che sarebbero serviti per tenere al calduccio tanti cagnolini rinchiusi nei canili.
Quando arrivò lo scatolone non lo aprii, ma lo portai direttamente a uno dei rifugi che aiutiamo da anni e lasciai che fosse Maria (uso un nome di fantasia per non tirare in ballo persone che magari non ne hanno voglia), la responsabile del canile, ad aprirlo. Eravamo trepidanti di vedere le meraviglie che ne sarebbero uscite. Anche perché nel frattempo mi ero informata e avevo scoperto che quei cappottini costavano parecchie decine di euro e, soprattutto, che c’era chi pagava quella cifra per portare a spasso il proprio cane paludato con la tutina siglata Chiara Ferragni.
Ed eccomi lì, piazzata alle spalle di Maria che, in mezzo a un gruppetto di volontari accorsi a vedere il regalo dell’influencer più influente d’Italia, con fare cerimonioso taglia il nastro adesivo che chiude lo scatolone, con lentezza teatrale estrae un robino incellofanato, lo solleva al cielo perché tutti gli astanti vedano e dice: «Ma… è un cappottino per topi!»
Se lo straccetto in cashmere arrivava a misurare venti centimetri era tanto, in effetti. Incominciammo a ridere come delle matte, e dovetti asciugarmi le lacrime. E continuammo a ridere mentre Maria, con aria solenne, una alla volta estraeva dalla magica scatola una ventina di queste “tutine per topi” in morbidissima maglia, commentando con enfasi gli elaborati disegni che le decoravano. Ma l’apoteosi fu quando, dopo aver preannunciato «Ma c’è dell’altro!», estrasse, una a una, una dozzina di parure collare/guinzaglio in pelle rosa e azzurra, tempestate di strass.
Rido, anzi ridiamo ancora nel ricordare quella scena. Allora non ne parlai perché, dopo essermi vagamente offesa per la presa in giro, suggerii a Maria di utilizzare quel ciarpame per qualche lotteria di beneficenza o il mercatino natalizio: qualcuno che ci tiene a portare a spasso il proprio topo/cane griffato Ferragni lo si trova sempre.
Assolsi (con indulgenza gratuita) la Ferragni, pensando che era un’iniziativa del suo staff, che lei senz’altro non ne era al corrente e che quelli per liberarsi di qualche fondo di magazzino (i cani taglia topo non sono poi così diffusi…) avevano pensato bene di fingersi benefattori amanti dei cagnolini (ma proprio -ini…) abbandonati.
Insomma, una figuraccia fatta a sua insaputa…
Ma adesso no. Qua non si tratta di una presa in giro, ma di un inganno, se non una truffa. Si tratta di aver turlupinato migliaia di consumatori facendo loro credere che acquistando con abbondante sovrapprezzo quel pandoro stavano facendo del bene ai bambini malati. E chissà in quanti avranno considerato santa la Ferragni perché si prodigava in questa operazione di beneficenza. Mentre per lei non si trattava che di vendere la sua immagine (a caro prezzo: si parla di un cachet da un milione di euro) per far vendere dei pandori.
Un’operazione indegna, cattiva, cinica, con la quale ha sfruttato, deriso, violato la malattia dei bambini e la buona fede dei suoi fan. Ha calpestato la buona e sana voglia di fare del bene che alberga nel cuore di tanti con un disprezzo che non è perdonabile. Non c’è vendita di indulgenze che possa mondare il peccato.
È grave, gravissimo, quello che ha fatto la Ferragni. E non ci sono soldi che possano pulirne l’onta. E non ci sono scuse o soldi che possano rimediare al danno d’immagine arrecato a tutti coloro (noi compresi) che ci mettono passione, sacrificio, tempo ed energie per fare DAVVERO del bene al prossimo (a due o quattro zampe che sia). Un danno che stiamo già rilevando, perché proprio da quando è scoppiato lo scandalo si sono immediatamente bloccate le donazioni natalizie che, da 26 anni, ci permettono di realizzare campagne di aiuti, come la Campagna Antiparassiti con la quale ogni anno sosteniamo decine di rifugi in tutta Italia. Concretamente, con impegno e fatica, non con false o equivoche promesse da… venditori di pandoro.

Diana Lanciotti

Fondatrice e presidente onorario Fondo Amici di Paco
www.amicidipaco.it

8 commenti

  • Giusi

    Cara Diana sei stata anche troppo buona verso quella signora che ha preso in giro tante persone. Spero che i suoi follower aprano finalmente gli occhi e smettano di seguire persone egoiste e avide.

    Un caro augurio di buon Natale

    Giusi

  • Laura

    Bravissima Diana hai detto quello che tanti pensano, con la tua classe che manca a questi personaggi di carta straccia. È ora di aprire gli occhi e non accettare più lezioni da quei due sbarbatelli montati fissati coi guadagni.
    Ti mando un caro saluto e tanti auguri!

    Laura

  • Daniele

    Gente che conduce una vita sotto i riflettori e non ne ha mai abbastanza che valori può insegnare alle nuove generazioni? La società dell’apparire prima o poi crollerà come un castello di carte. E qualcuno si farà male.

    Grazie

    Daniele

  • Livio

    D’accordo su tutto e con tutti. La cosa che mi fa pensare è rilevare come il marketing sia arrivato a convincere imprenditori che producono beni o servizi reali a maggiorare il prezzo finale del bene raddoppiandolo o triplicandolo e di riuscire a convincere tanti consumatori. In questo caso c’è pure l’inganno della donazione ma in molti prodotti ci sono comunque costi elevatissimi di marketing da sostenere, costi spesso maggiori del costo del prodotto comprensivo di un giusto margine per l’azienda. Questo a mio avviso è un grosso problema perché ci fa capire che la qualità del prodotto è diventata un accessorio del marketing quando in realtà dovrebbe essere il contrario.

    Grazie per l’opportunità e auguri di buone feste

  • Enrico

    Sono perfettamente in sintonia su quanto da Lei evidenziato, ma ritengo che purtroppo il ‘lavoro’ di influencer non subirà nessun danno, in quanto la sua esistenza inutile dipende solamente da coloro che, non avendo cose più importanti da fare, con un semplice ‘mi piace’ contribuiscono alla sua florida prosecuzione.
    Cari auguri.

  • B.M.

    Cara sig.ra Diana concordo perfettamente su quanto espresso nel suo articolo.
    Basterebbe, per terminare, questo tipo di lavoro (come arbitrariamente viene chiamato), l’indifferenza da parte della gente e sopratutto vergognarsi di usare la parola beneficenza per altri scopi.
    La saluto cordialmente augurandole serene festività.
    B.M.

  • Filippo

    Mi è piaciuta questa frase di Cruciani alla Zanzara: “Molti mi accusano di non parlare dei casi Del Mastro, Santanché, Sgarbi invece di soffermarmi molto sul caso Ferragni. La risposta è molto semplice: in questo caso ci sono di mezzo i bambini, gli ospedali”.
    Dovrebbe bastare ai signori che difendono la Ferragni dicendo che anche altri hanno sbagliato, come ho letto su Facebook che stanno facendo. Mi chiedo perché difendere l’indifendibile?
    Grazie per la chiarezza
    Filippo

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