Incipit “C’è sempre un gatto”

LA PORTA SBATTUTA

La porta sbattuta. L’aveva sempre considerato l’atto più violento del quale, in preda all’ira, anche la più furibonda, fosse capace.
Ogni sua lite, ogni loro lite, culminava sempre con una porta sbattuta. E in quella porta sbattuta c’era tutta la violenza, tutta l’amarezza, tutta la rabbia per l’incapacità, una volta per tutte, di saltargli al collo e urlargli in faccia: “Non ne posso più. Voglio lasciarti.”
Così la porta sbattuta era la suprema ribellione, l’urlo interiore mai espresso che si tramutava in quel “BAM!”, secco e violento da far tremare i muri di casa.

Aveva un suo fascino, quel suono di porta sbattuta: a ogni lite, provocata da lui o da lei non importa (ma più spesso da lui), lei iniziava con l’assecondarlo alzando sempre più la voce, rifilandogli una sequela di rispostacce che gli facevano informicolare le mani di rabbia impotente; e poi, col proseguire dello scontro lei non riusciva più a sovrastare quella sua vociaccia da baritono e finiva per tacere. Era allora, man mano che la rabbia montava e la travolgeva, che incominciava ad assaporare il gusto di quel momento: quando se ne sarebbe andata lanciando un’ultima ingiuria nei suoi confronti, avrebbe afferrato la maniglia e, “BAM!”, gli avrebbe chiuso la bocca con quella porta sbattuta su quel viso paonazzo e stravolto.
Il viso di un estraneo.