I nostri migliori amici

Il mio infermierino

Diana, Diana cara non posso crederci: Joy non c’è più!!!???
Ho letto le poche righe dove dai la notizia su “Amici di Paco”. Mi sembrava strano non vedere la fotografia di Paco in copertina… e poi dopo due pagine ho scoperto il motivo.
Joy? Joy, che hai tanto curato e salvato dalla soppressione se n’è andato così, in modo tanto crudele? Posso immaginare la tua disperazione e capisco il tuo desiderio di non parlarne eppure forse se ne parlassi come hai fatto quand’è volato lassù Boris, il tuo angelo, forse ti aiuterebbe… ma è solo un parere, il parere di una persona che si considera amica e vuole esserti vicino in questo terribile e doloroso momento. Non te lo meritavi: in un momento già difficile per la tua salute questa è una mazzata che annienterebbe una montagna di roccia. Ma tu sei forte e per Joy, che ti voleva tanto bene, e tutti i cani che puoi ancora aiutare andrai avanti.
Ciao, ciao Diana e ciao caro Joy

Cinzia

Carissima Cinzia, dopo tutti questi mesi io stessa faccio fatica a crederci. E’ stato tutto così rapido, inaspettato, e tanto tanto doloroso. Ricordo ogni attimo di quella notte, e di come ogni attimo assomigliasse agli attimi di quella notte in cui, 6 anni prima, se n’era andato Boris.
Ma sì, dai, provo a parlarne. Ne parlo solo perché domani entrerò in ospedale e forse… forse parlare del mio Joy, che adesso sarebbe qui a rassicurarmi, a darmi il suo conforto, a dirmi con gli occhi. “Vedrai che andrà tutto bene”, può aiutarmi perlomeno a distrarmi. A non pensare che domani incontrerò di nuovo il mio destino e dovrò fargli un lungo discorso. Quel discorso che Joy, negli ultimi anni, avrebbe voluto fargli ma senza riuscirci.
Come Boris era il mio “angelo custode”, Joy era la mia roccia. E poi, quando a causa di quella maledetta operazione alle tonsille ho incominciato a star male (dopo aver rischiato la pelle ben due volte a causa di due grosse emorragie), lui era diventato anche il mio “infermierino”.
Povero tesoro: era tanto cambiato… Del resto sono così cambiata io, e lui era troppo attaccato a me per non risentirne. Ma non poteva non essere così. Lui era nato con quella grave patologia, il megaesofago, per la quale era condannato alla soppressione o comunque a morire presto. E invece io l’avevo guardato bene negli occhi (un po’ come successe più avanti con Oreste) e ho capito che lui aveva tutte le intenzioni di viverla, questa vita, e possibilmente (anzi: necessariamente) con me. Eravamo attaccatissimi. Se possibile ancora di più di quanto lo fossimo io e Boris, io e Paco. Quante notti ho passato ad alzarmi, i primi mesi, con nelle orecchie la litania delle cassandre (“Non potrà mai farcela…”) per controllare se respirava, se era vivo. E ogni volta vedere il suo petto che si sollevava tranquillo e il suo muso disteso sereno, in attesa di trascorrere accanto a me il giorno dopo, tutto il giorno, era una gioia immensa. Incomparabile.
Sospiravo di sollievo e tornavo a letto, ringraziando il cielo perché anche quella notte Joy non era… morto soffocato, come qualcuno aveva ipotizzato.
Ma lui era forte, e io lo amavo tanto. E insieme ce l’abbiamo fatta.
E’ stato il suo problema a far sì che io mi attaccassi così tanto a Joy, dopo aver amato così tanto un cane come Boris.
Lui lo sapeva, e ogni giorno sembrava ringraziarmi per quello che facevo per lui.
Joy era un cane solare, pieno di forza, allegria e vitalità. Pura gioia di vivere. E dava gioia a tutti coloro che lo incontravano. Figurati a me, che vivevo accanto a lui.
Era una forza del natura. Esuberante, allegro, felice. Il veterinario diceva che, avendolo penalizzato con il problema del megaesofago, la natura gli aveva dato una marcia in più.
Era di un’intelligenza acuta. Conosceva e riconosceva un vocabolario estesissimo e a volte mi sorprendevo che capisse un concetto anche se per esprimerlo usavo una parola diversa dal solito. Oppure coglieva, da un discorro tra me e Gianni, una parola che gli faceva scattare una qualche reazione.
Come quando qualcuno diceva “Oggi c’è il sole” e lui partiva a perlustrare il giardino, nella speranza di stanare l’odiatissimo (da lui) gatto dei vicini che si chiama… Sole.
Era straordinario. Davvero. E non lo dico perché era mio, ma perché ho vissuto con tanti cani e tanti ne ho conosciuti, ma uno come Joy non l’ho mai incontrato. Era unico. Aveva davvero una marcia in più.
Da quando mi aveva vista star male all’epoca dell’operazione alle tonsille e mi ha vista per i successivi due anni star male, a volte così debole da non reggermi, era cambiato. Si metteva accanto a me e… guai a chi si avvicinava. Persino mio papà, che come medico aveva il suo buon diritto di venirmi a vedere, non poteva avvicinarsi al mio letto. Lui doveva proteggermi. Solo lui sapeva da chi e da cosa.
La camera da letto, che un tempo era tassativamente off-limits per lui, era diventata accessibile, perlomeno tutte le volte in cui, per la febbre, i dolori e la debolezza, dovevo correre a sdraiarmi. Ovunque lui fosse, arrivava, mi leccava la gola (e io gli dicevo “Sì, è proprio lì che ho la bua”), dopodiché faceva un lungo sospiro e si sdraiava sul pavimento. Stava lì finché io restavo lì. Ogni tanto si alzava, mi dava una controllata (e io gli dicevo “Sì, bravo il mio infermierino”), poi tornava a sdraiarsi.
Negli ultimi mesi, però, si era intristito. Non vedeva più la mamma allegra e forte di un tempo e non sapeva che cosa fare per me. Lo vedevo scrutarmi a lungo, preoccupato, e poi sospirare.
Oh, il mio tesoro.
Sai… ho un grande cruccio. Un mese prima, date le condizioni disastrose della mia gola, un amico medico, in contrasto con gli altri otorini che mi avevano detto di rassegnarmi, che intervenire di nuovo sarebbe stato pericoloso, mi aveva consigliato di rivolgermi a un chirurgo di Bergamo molto bravo che, a suo dire, sarebbe stato l’unico (visti i grossi interventi di otorinolaringoiatria che fa) ad “avere il coraggio” di metterci le mani e rioperarmi.
Sapevo, so di non poter andare avanti così, e che se anche l’intervento non è affatto semplice (visto come mi avevano conciato la gola nel 2009) dovevo provarci. Ma… c’era Joy. E sapendo che Joy, per il suo problema di megaesofago, aveva bisogno di me… non me la sentivo di affrontare un intervento così. E se mi fosse successo qualcosa? E se anche solo per un po’ non avessi potuto accudirlo? Non era così semplice preparargli i pasti e poi tenere a bada la sua voracità, impedendogli di ingoiare tutto in un nanosecondo. Non avrei mai delegato ad altri quella responsabilità. Era mia, sin dall’inizio. Gli avevo promesso che ci avrei sempre pensato io, a lui, e non potevo disattendere la promessa.
La “nostra” canzone, non per niente, era “La cura” di Battiato. Non so se la conosci. Splendida. L’ho usata in apertura del mio libro su Boris.
Insomma, sapevo di aver bisogno di un nuovo intervento, ma non avevo voglia di affrontarlo. Più che altro per Joy, che aveva tanto bisogno di me.
Ecco, il mio cruccio è di avergli fatto captare i miei pensieri.
E a volte (sappiamo benissimo quanto i cani sappiano leggerci nel cuore e nella mente) mi sento in colpa perché temo che lui abbia deciso di andarsene per “liberarmi” da quel vincolo e permettermi di seguire la mia strada.
Fatto sta che un mese dopo la sua scomparsa sono andata a farmi visitare a Bergamo da quel chirurgo. Il quale, dopo aver scosso la testa ed essersi messo le mani tra i capelli davanti allo scempio delle mie tonsille, mi ha detto chiaro e tondo che, ridotte così dagli interventi precedenti, andavano tolte definitivamente. Pensa… dopo aver espresso un giudizio totalmente negativo sulla criptolisi, ha chiesto a me perché, durate la seconda emorragia, invece di cercare di salvare una tonsilla ormai tanto malridotta non mi avessero fatto la tonsillectomia. Addirittura, mi ha spiegato che avermi cucito la tonsilla all’interno della loggia è stata un’operazione sbagliata, che si faceva solo un tempo (ora non più) e solo incasi diversi dal mio. E ora, visto come sono andate le cose, proprio la tonsillectomia restava l’unica cosa da fare se volevo risolvere i miei problemi.
Ho tergiversato ancora un po’. Ne avevo già passate abbastanza, credo, e poi il dottore non mi aveva nascosto la delicatezza dell’intervento e del postintervento. Così ho sentito anche il parere di un altro primario, di Negrar. Anche lui ha emesso lo stesso verdetto. Però ha preferito tergiversare ancora un paio di mesi. “Dopo tutto quello che ha passato”, mi ha detto, “non me la sento di proporle un’operazione subito.” Ma in ogni caso me la presentò come l’unica soluzione.
Bene, alla fine ho deciso.
Non c’è più motivo, non c’è più la preoccupazione per Joy a farmi desistere. Domani entrerò in ospedale a Bergamo. Ho paura, perché so che cosa mi aspetta: ho già sofferto abbondantemente nelle precedenti operazioni (che non sono servite a nulla, ma solo a farmi soffrire inutilmente e a crearmi un sacco di problemi).
Questa volta una soluzione dovrebbe esserci. Se tutto andrà bene.
Però stavolta non ci sarà il mio Joy, il mio infermierino, ad assistermi e incoraggiarmi.
O forse ci sarà anche lui, domani, in sala operatoria. Magari mi sarà accanto e mi leccherà ancora una volta la gola e poi, da bravo infermierino, starà lì ad aiutare.
So che devo farlo, ma non sarà una passeggiata.
Adesso ti saluto. Vado a preparare la valigia. Ho già pronta una fotografia di Joy da metterci dentro.

Diana

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