News

Per favore non chiamatemi animalista /2 (La dolcezza di Paco contro la… “schifezza” di Rocco)

Due anni fa sul mio sito scrivevo un editoriale intitolato “Per favore non chiamatemi animalista” (https://www.dianalanciotti.it/article….5160754559), in cui mi dissociavo dai comportamenti fanatici di certa parte dell’animalismo che, anziché portare del bene alla “causa”, allontanano persone non motivate come possono invece essere quelle che impegnano buona parte del loro tempo e delle loro energie per aiutare gli animali.
Oggi sono qua a ribadire le mie distanze da certi atteggiamenti del mondo animalista.

(Clicca su “continua” per leggere il seguito)

A parte che, da gran individualista come sono, non amo le etichette e il ritrovarmi intruppata in questa e quest’altra categoria (chiamatemi snob… ma ho sempre rivendicato la mia possibilità di usare il mio cervello senza chiedere in prestito quello degli altri), non ho mai capito perché per taluni essere animalisti, o vegetariani, o vegani, o cristiani, o musulmani, o comunisti, o fascisti, o qualunque altra categoria sociopoliticoreligiosa, comporti una qualche forma di “superiorità” (o, al contrario, di inferiorità) rispetto agli altri.

Diciotto anni fa, quando io e mio marito fondammo il Fondo Amici di Paco, in onore e su ispirazione del nostro grandissimo e amatissimo Paco, la tutela degli animali era un genere poco noto, poco frequentato, che non attirava più di tanto l’interesse delle istituzioni, dei media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica. Oddio, c’era chi si occupava tutt’al più e più volentieri delle Foche del Burundi, degli Elefanti dell’Alaska, delle Renne del Timbuctù… insomma di animali rari, esotici, in via d’estinzione. Faceva più fine che occuparsi di… cagnacci (e gattacci) randagi.
Le poche signore che si occupavano di cani e di gatti abbandonati, quasi di nascosto, in modo defilato e dimesso, con la riprovazione dei benpensanti (secondo i quali c’è sempre qualcosa di più importante che occuparsi di animali), erano etichettate come “cagnare” o “gattare”, immagine che rimandava a donnine malvestite, mal lavate, mal istruite, possibilmente zitelle o vedove, con niente di meglio da fare al mondo che ”star dietro” ai cani e ai gatti. Non dico che fosse realmente così: dico solo che era l’idea che prevaleva nell’immaginario collettivo (come fa tanto fine dire oggi) riguardo a chi si occupava di animali non esotici, ma di normali e umili animali domestici.
E poi c’era una piccola ma rumorosa parte di animalisti che consideravano l’animalismo come una guerra santa e quindi tutte le le loro azioni erano una “battaglia per i diritti degli animali”. E in nome di questa guerra si incatenavano di qua e di là, imbrattavano le vetrine delle pelliccerie, lanciavano le uova addosso alle signore impellicciate alla prima della Scala. Col risultato di incattivire sempre di più chi non la pensava come loro, e farsela e dirsela sempre e solo tra pochi.

Poi arrivammo noi, 18 anni fa, io, Gianni e Paco, e sdoganammo l’animalismo, dimostrando che per occuparsi di cani e di gatti si può essere lavati, vestiti decentemente e magari anche con quel po’ di istruzione che ti permette di andare in tivù o alla radio senza farti prendere in giro o compatire. E che si può parlare di tutela degli animali senza urlare, lanciare uova, insultare. Senza, come dico sempre io, “prendere a pugni nello stomaco” ma cercando di “persuadere con dolcezza”, che è poi diventato il motto del Fondo Amici di Paco (e che, alla fin fine, è anche il mio personale modo di essere e di porgermi verso chi non la pensa come me).
Lo facemmo talmente bene, credendoci così tanto, galvanizzati e ispirati dal nostro Paco e mossi da quanto avevamo scoperto circa le atrocità finora nascoste del randagismo e dei maltrattamenti sugli animali, che i giornalisti ci diedero tantissimo spazio e ci aiutarono ad attrarre l’attenzione di tantissime persone, che aderirono alle nostre iniziative.
Finalmente qualcuno che diceva le cose come stavano, e lo diceva colpendo il cuore e non lo stomaco…
E, finalmente, un cane (ben lavato e pettinato… non un cagnaccio rognoso e pulcioso come qualcuno immaginava fossero tutti i cani randagi) che, dopo averne passate di cotte e di crude, poteva essere il simbolo “presentabile” di tanti suoi simili, ai quali ridiede la speranza in un futuro migliore. E sono ancora tanti quelli che devono dirgli grazie e… accendere un cero a “san Paco”.
Lo facemmo così bene, dicevo, usando la nostra esperienza di professionisti della comunicazione che, grazie alle campagne che realizzammo (gratuitamente!) con la nostra agenzia per il Fondo Amici di Paco, oltre a sensibilizzare tantissime persone facendole riflettere su qualcosa su cui finora non si erano mai soffermate, insinuammo in qualcuno l’idea che a occuparsi di cani e di gatti ci fosse da… guadagnarci.

Difficile, in un mondo che ruota intorno al denaro e al tornaconto, concepire che qualcuno faccia qualcosa semplicemente perché ci crede, e perché nella sua immensa presunzione ha deciso di contribuire a migliorare un piccolo spicchio del nostro pianeta, senza guadagnarci.
E così, per il primo anno non passava giorno senza che qualcuno ci telefonasse per sapere come si faceva a mettere in piedi un’associazione come la nostra.
Alla mia immancabile risposta: «Basta adottare un cagnolino meraviglioso come Paco e sentirsi in colpa per gli altri che sono rimasti al canile e aver voglia di fare qualcosa anche per loro» mi sentivo controbattere: «Sì… ma…?» come dire: “Queste sono ciance, ma alla fine quanto ci si guadagna?” «Oh, ci si guadagna tantissimo», era la mia risposta. «Tantissimo amore, tantissima gratitudine, e tantissima soddisfazione.»
C’era chi era soddisfatto della mia risposta, e chi invece credeva che io non volessi dire la verità ma che effettivamente ci fosse da ricavarci qualcosa.
Certo, volendo c’è da farne dei soldi: purché gli animali siano un mezzo e non un fine. Ma non fa per me.
Ed è così che nacquero decine e decine di associazioni, sulla falsariga del Fondo Amici di Paco. Per fortuna, tra tante persone intenzionate a farne un business, ce n’erano e ce ne sono tante che invece avevano e hanno realmente a cuore le sorti degli animali. E anziché prenderne ne danno, di soldi, oltre al proprio tempo e alle proprie energie. E in questo caso posso essere orgogliosa di aver dato il via perché nascessero queste realtà.

Ma veniamo a oggi. Perché dico che non voglio essere definita animalista? Perché, al di là della mia già spiegata idiosincrasia per le etichette e le categorie, in tutti questi anni ho scoperto una parte di animalismo becero, litigioso, impegnato a scannarsi e diffamarsi anziché a fare realmente del bene agli animali. Sembra che si siano radunate tutte insieme persone cariche di frustrazioni personali, che dall’occuparsi degli animali paiono trarre qualche forma di riscatto. Il problema è che affrontano ogni cosa con livore, astio, violenza.
Sono tanti, troppi gli animalisti che si fanno la guerra tra di loro, sentendosi ognuno depositario della verità e investito del titolo di paladino degli animali. Ancora tanti gli animalisti che credono che i pugni nello stomaco siano più efficaci del buon esempio, dell’informazione mirata e consapevole, degli inviti alla riflessione.
Nessuno ha voglia di sentirsi offendere o prendere a calci sul naso da chi non la pensa come lui. Io stessa, se quando avevo le pellicce (sì, non l’ho mai negato: ne ho avute due, e anche bellissime… purtroppo) o quando mangiavo carne o pesce mi fossi sentita insultare, o aggredire, probabilmente non avrei mai riflettuto sui miei errori (che a vent’anni non consideravo errori, ma normale modo di vivere e cibarsi), ma mi sarei offesa e irrigidita sulle mie posizioni.
È così che succede: molto più efficace (ve l’assicuro perché è la strada che ho scelto) ragionare con calma, spiegare le proprie scelte, non smettere, ad esempio, di frequentare carnivori se si è vegetariani (qualcuno pratica questa forma di “razzismo”…) Non serve a niente continuare a dirsela tra pochi, quelli che ormai sono già convinti.

Ma ho fatto un’altra digressione, scusate. Forse non ho voglia di arrivare al dunque. Ci provo.
Notizia di ieri (almeno per me): gli Animalisti Italiani hanno presentato la loro nuova campagna a favore degli animali. Testimonial… d’eccezione… Rocco Siffredi.
Non sto lì a dietrologizzare, come qualcuno fa, dicendo che forse, dopo aver deciso di rinfoderare la sua “arma segreta” (che poi così segreta non è) e non recitare più in film porno, deve pur trovare un altro modo per campare facendosi pubblicità.
Peccato che la pubblicità lui voglia farla agli animali. E così ecco che nasce questa campagna, che con un “elegante” doppio senso è stata intitolata “Pene più dure per chi maltratta gli animali”.
Vabbe’, se fosse tutta lì… In realtà alla conferenza stampa, per ribadire e… inculcare meglio il concetto, il signor Siffredi si è tirato giù braghe e mutande e ha sfoderato la sua “arma segreta” spiattellandola davanti al naso e agli occhi dei giornalisti presenti. Che, è vero, adesso ne parlano (tanto riempire le pagine di un giornale è come riempire il carrello del supermercato… anche se non sempre tutto quello che si compra è buono e utile); ma non è detto che il fatto che ne parlino porti acqua al mulino dell’animalismo.
Anzi, qualcosa mi dice di no!
Ma mi spiegate, anzi vorrei che me lo spiegassero i commissionari e gli ideatori della campagna, perché qualcuno dovrebbe voler più bene agli animali o preoccuparsi di loro solo perché Rocco Siffredi ha messo in mostra quello che, sempre molto elegantemente, ha definito il suo boa?

Purtroppo qualcuno confonde il “purché se ne parli” col “parlarne perché qualcuno faccia qualcosa”.
No, non credo proprio che basti parlarne. Conta come se ne parla (dei diritti degli animali, intendo): conta il tono, il contenuto, la capacità di essere seri, educati, convincenti, equilibrati.
Le volgarità, le pagliacciate, così come i pugni nello stomaco, agli animali non portano nulla. Chi non è già sensibilizzato al riguardo non è certo perché Siffredi si cala i pantaloni che decide di aiutare gli animali. Anzi, magari si schifa proprio.
Ecco, ecco perché se qualcuno mi dà dell’animalista mi offendo.
Come scrivevo due anni fa: “Se l’animalismo è questo, è quello violento, becero, fanatico, disinformato, diffamatore, aggressivo, perennemente arrabbiato, io non ho nulla a che farci.”
Ma non ho nulla e né voglio averci a che fare se è anche volgare, offensivo e chiaramente più preoccupato di mettere in mostra certi personaggi (non solo e tanto Siffredi, quanto coloro che l’hanno voluto come testimonial) che di aiutare realmente gli animali.
Continuerò per la mia strada: a “persuadere con la dolcezza” e… non con la schifezza.

Diana

P.S. Qualcuno ogni tanto mi e ci rimprovera di “lavorare da soli”, senza legarci ad altre sigle, altre associazioni. Questo è uno dei motivi: che se non sono io a gestire le cose come voglio e credo sia giusto, il rischio è di mettersi insieme a qualcuno che poi… svacca o (letteralmente) si sbraca. Come è il caso di questi animalisti (non nuovi a questo genere di iniziative) e di questa volgarissima campagna.
Un altro motivo è che le stesse ragioni per cui è nato il Fondo Amici di Paco (se qualcuno ha letto “Paco. Diario di un cane felice” sa a cosa mi riferisco) sono le stesse per cui continua e continuerà a esistere: per aiutare concretamente gli animali e non per portare soldi in tasca a qualcuno. Nessuno di noi percepisce un euro dal suo “lavoro” per il Fondo Amici di Paco. Mentre ci sono numerose organizzazioni in cui il personale (dal presidente in giù) è pagato. Per loro è un lavoro. Per noi no. Per noi è una meravigliosa opportunità, del tutto gratuita, per fare qualcosa di importante per migliorare le condizioni di vita degli animali.

P.P.S. Alla “schifezza” di Rocco contrappongo la dolcezza di Paco, che con il suo sguardo profondo ha convinto milioni di persone che abbandonare un cane è una delle peggiori atrocità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

sedici − due =