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L’amore per la Sardegna nei miei libri

In risposta a chi vuole far credere che i miei interessi a Costa Paradiso siano diversi dal godermi il posto che più amo al mondo, dove ho trascorso momenti meravigliosi con i miei cari (a 2 e… 4 zampe!), riporto alcuni passi dei miei libri in cui emerge il mio amore profondo per questo splendido territorio, purtroppo preda di ingordigie e ambizioni sfrenate.

Cap. 23

La luna di miele l’avevano trascorsa in Costa Paradiso, un enorme comprensorio di rocce granitiche disegnate dal vento e dal mare. Era stata una scelta un po’ anticonformista, la loro. Tutti si aspettavano che avrebbero fatto un viaggio in qualche paese esotico, scegliendo una delle tipiche mete da viaggio di nozze. Ma Giorgia riteneva di aver girato il mondo a sufficienza, e pure Roberto, anche se non ne aveva compiuto il giro completo, sentiva di aver fatto la sua parte.
D’inverno la Sardegna èuna rivelazione. Niente a che fare con il movimento demenziale dell’estate, con il traffico e il rumoroso brulicare di turisti che sembrano pagati a cottimo per girare senza sosta. Dopo le piogge di novembre, tutta l’isola si copre di uno spettacolare manto verde. Gli arbusti, bruciati dal sole di luglio e agosto, come per magia riprendono vita e si riempiono di germogli. Fioriscono le eriche e le acacie, e i corbezzoli portano a maturazione i loro frutti rossi e carnosi. Gli abitanti, non piu assediati dalla ressa estiva, mostrano il loro lato gentile, ospitale, sincero.
«Chi va in Sardegna solo d’estate si ricorda solo il vento, il caldo, la siccitàe la confusione», aveva detto Giorgia a Roberto, prospettandogli l’opportunitàdi conoscere il volto vero dell’isola di cui lei si dichiarava perdutamente innamorata.

La casa apparteneva a un amico di Giorgia, che aveva voluto prestargliela come regalo di nozze. Era costruita a picco sul mare, annidata in mezzo a un gruppo di rocce ciclopiche dalle incredibili forme di animali fantastici.
Quando arrivarono, il mare, trenta metri piùsotto, ribolliva sotto la frusta di un impetuoso maestrale.
Tenendosi per mano, scesero fino a metà del sentiero che si snodava in mezzo a sculture naturali di granito rosa. Si fermarono solo quando i primi spruzzi d’acqua polverizzati dal vento li raggiunsero. Si sedettero su un masso levigato e restarono ad abbeverarsi di quell’aria satura di profumi, di sapori, di vita, a guardare le onde portentose che, schiantandosi contro la scogliera, la facevano vibrare in un canto scaturito nei secoli dall’incontro tra il mare e la roccia.
Roberto era incantato dalla bellezza selvaggia del luogo e respirava profondamente, inebriandosi gli occhi e i polmoni.
«Pensa», disse Giorgia, «quarant’anni fa qui non c’era nulla: solo scogli e ginepri a perdita d’occhio. Invece adesso, le vedi, le case?»
«Case? Quali case? Io non vedo niente», obiettòRoberto.
«Per forza: sono così nascoste tra le rocce che devi sapere che ci sono per vederle.»
In effetti, ora che Giorgia gliel’aveva fatto notare, Roberto iniziava a scorgere, una a una, splendide ville perfettamente inglobate dalle rocce e dalla vegetazione.
«La chiamavano Sarra Niedda, il luogo del nulla», proseguì Giorgia. «Erano i terreni dati in dote alle figlie dei pastori, terreni che non valevano nulla. Nulla, almeno fino al momento in cui vi posògli occhi un milanese, Piero Tizzoni. Fu amore a prima vista, tanto che Tizzoni decise di farne il paradiso per le vacanze dei suoi amici registi, attori, scrittori, giornalisti. Voleva creare la risposta “intellettuale” alla mondanitàdella Costa Smeralda. Làsfarzi, luci, lustrini, riflettori sempre accesi, qua riservatezza, contatto con la natura, pace assoluta, isolamento dal mondo.»
Affiancato da Pepita, una ragazza ligure forte e determinata, Tizzoni si lanciò nell’avventura di creare dal nulla uno dei posti di vacanza piu esclusivi del mondo.
«E riuscirono a farlo quarant’anni fa, quando tutti li prendevano per matti», spiegò Giorgia, mentre Roberto inspirava l’aria salmastra e l’ascoltava attento. «Tizzoni se ne andò quando arrivarono gli speculatori e iniziarono a fare scempio della “piana”, la zona piu a sud. Pepita invece e rimasta ed ètuttora qui a cercare di salvaguardare dalla cementificazione la parte piùa nord della costa, quella dove siamo noi. Ho sentito raccontare episodi straordinari di questa donna che, in un mondo chiuso e maschilista, seppe farsi valere e imporsi insegnando a intere maestranze di ex pastori a trasformarsi in operai e muratori per realizzare il sogno di due “continentali matti”. Insieme all’architetto Ponis, Pepita ha seguito direttamente la costruzione delle ville più belle di tutta la costa. Dove vedi case che sembrano create direttamente dalla natura, che fanno parte del paesaggio, che giocano con il terreno, c’e la mano di Ponis e di Pepita.»
«È davvero un posto unico», riconobbe Roberto. «Avevi ragione: chi viene qui solo d’estate, per fare il bagno e prendere il sole, non sa cosa si perde. Peggio per loro. Vorrà dire che ce lo godremo noi, fino in fondo» (…)

(da Black Swan-Cuori nella tempesta – Diana Lanciotti – Paco Editore – novembre 2003)

Note dell’autrice

(…)

A Pepita Isetta, per essere ancora la, dopo quarant’anni, a cercare d’impedire che uno degli angoli più belli della Sardegna, forse della terra, cada definitivamente preda delle pazzie cementificatorie di chi, nella sua infinita ottusità, non ha capito che le bellezze della natura sono patrimonio dell’Umanità, non il mezzo per rimpolpare il proprio personale patrimonio.

(da Black Swan-Cuori nella tempesta – Diana Lanciotti – Paco Editore – novembre 2003)

La casa dell’anima

L’amore d Paco per la Sardegna è pari al mio.  E anche lui, come me, ama contemplare per lunghi minuti la bellezza selvaggia e a volte addirittura aggressiva di quella che considero la vera casa della mia anima.

(da Paco, il simpatico ragazzo – Diana Lanciotti – Paco Editore- novembre 2007)

Martedì 29 luglio – Arrivo in Sardegna.

(…)
Sbarchiamo e subito veniamo accolti dal profumo agrodolce e inconfondibile della macchia mediterranea.
«Benvenuta in Sardegna», mi dice Gianni, rispettando uno dei tanti riti che caratterizzano ogni arrivo nella “nostra” isola.
«Benvenuto in Sardegna», rispondo. Poi mi volto indietro verso Joy e Tommi, che annusano avidamente l’aria carica di tutti gli odori del mondo.
«Benvenuti in Sardegna, ragazzi. Benvenuto anche a te, Orestino.»
Dopo circa mezz’ora arriviamo alla chiesetta di Stella Maris, tappa d’obbligo di ogni nostro arrivo. Un altro dei riti irrinunciabili.
Anche a non essere credenti, una volta entrati, una volta che si respira l’aria satura di ginepro, non si può non avvertire la presenza di Qualcuno, o Qualcosa, e non aver voglia di pregare. Per sé, per i propri cari, per un mondo migliore. Anche per un uccellino.
“Fai che Orestino abbia una vita bella e felice, e aiutami a decidere per lui.”

Arriviamo in un tripudio di sole, di cielo blu e di rocce rosate. Il mare è calmissimo, solcato da barche felici di essere lì, puntini bianchi in mezzo a quel blu assoluto.
Scendiamo fino a casa, preceduti da Joy e Tommi che si scapicollano giù dalle scale, i nasi incollati a terra a inseguire le tracce di gatti e cinghiali che qui, in questo paradiso, convivono in perfetta armonia.
C’è chi li odia, i cinghiali, ed erige recinzioni (vietatissime e abusive) per salvaguardare dai loro assalti le aiuole da città che, in un posto selvaggio e incolto come questo, hanno la stessa ragione d’essere di una palma in un ghiacciaio. Non ho mai capito come si possa voler riprodurre giardini curati, con erbetta falciata, fiorellini variopinti e bordurine tosate che sembrano appena uscite dal barbiere, in un luogo dove i lecci, corbezzoli, i mirti, i lentischi, i cisti, i ginepri vengono su spontanei in mezzo alle rocce e, come queste, forgiati dal maestrale.

Appena entrati ci accoglie il solito profumo di ginepro. Ho “sapientemente” sparpagliato qua e là pezzetti di rami e tronchi di ginepro, nella speranza di riprodurre, almeno in parte, l’atmosfera di Stella Maris. E, in piccola parte, ci sono riuscita.
Apriamo subito le vetrate per far entrare l’aria pregna di sole e sale.
Oreste, nel trasportino, lancia sgrek a ripetizione.
«Hai fame, piccolino?» gli chiedo guardandolo attraverso la portina.
Sgrek. Famissima… ti sei dimenticata di me…

 

Sabato 2 agosto – Il mondo fuori da qui.

È un momento cruciale. Sono in ansia, perché non so come si comporterà Oreste, e nemmeno come è giusto che si comporti. Spero solo che non voli via spaventato dal nuovo ambiente o che, in un’ubriacatura d’immenso, non si lasci portare via, senza sapere dove andare.
Esco sul terrazzo, fingendo di non essere trepidante come sono. Lui mi segue passo passo: un fedele cagnolino. Mai avuto un cane che mi stesse al piede in modo così ordinato e impeccabile e, soprattutto, senza guinzaglio né addestramento.
Ostentando una tranquillità che non provo, mi guardo intorno e immagazzino le immagini grandiose di questo paesaggio che non finisce mai di sorprendermi. Non c’è giorno che sia uguale a un altro, ora che assomigli alla precedente. Potrei scattare migliaia di fotografie con la stessa inquadratura e ognuna sarebbe diversa dall’altra. O per il mare che si trasforma di continuo, o per il sole che illumina le rocce trasfigurandole di minuto in minuto, o per il cielo che cambia colore di attimo in attimo.

27 Dicembre 2012 – Ritorno a casa

(…) Mentre sistemo il rosmarino strisciante nella buchetta che ho preparato ai piedi di un roccione a forma di orso e rincalzo il terriccio intorno alla zolla, la mente ritorna là, a quel giorno di agosto, quando Oreste è volato via.
Ora il dolore è meno forte. Prevale la dolcezza struggente dei ricordi.
Da allora qua in Sardegna ci sono tornata poche volte. Non avevo le forze per affrontare il viaggio. E in ogni caso, una volta qua mi sarei sentita in gabbia, impotente, incapace di curare le mie piante, di fare le mie passeggiate in spiaggia con i cani. Di godermi la vita che ho sempre amato fare.
Abbiamo dovuto vendere La Cruzitta perché i medici, non volendo ammettere che a ridurmi così fosse stata la negligenza di un loro collega (come si dice, “cane non morde cane”… con tutto il rispetto per i cani), si erano messi in testa (e mi avevano messo in testa) che avevo qualche brutta malattia… che col tempo mi avrebbe impedito anche solo di salire le scale impervie della mia amatissima casa.
Ma questa splendida mattina di dicembre è uno schiaffo alla loro presunzione, e un lussuoso regalo per la mia speranza in un futuro migliore. Qui, alla Cuata, dove ho tutta l’intenzione, ora, di riprendere il cammino interrotto.
Mi allontano di due passi per osservare il risultato del mio lavoro. Per ora è ancora piccola, ma so che nel giro di un paio d’anni la piantina che ho appena messo a dimora allungherà i suo rametti contorti fino alla roccia e ne rivestirà la base, creando una scultura verde. E allora sembrerà che il grosso orso di granito esca direttamente dal cespuglio.
Un paio d’anni… fino a pochi mesi fa non credevo nemmeno che li avrei avuti, altri due anni…
Uno strepito che proviene da un picco roccioso poco lontano interrompe la malinconia dei miei ricordi. Meglio così. Una giornata tanto splendida non merita pensieri tristi.
Alzo gli occhi verso il cielo, dipinto di un turchese profondo e puro.
Pippo, il solito falchetto dispettoso, se l’è presa con Ginger e Fred, la coppia di corvi imperiali che hanno casa tra le rocce affacciate sulla Corsica e ogni giorno pattugliano la zona con il loro volo elegante e austero. Ogni volta che mi vedono si abbassano e mi salutano con il loro verso rauco, che ho imparato a imitare. O almeno loro sono così gentili da farmelo credere, e ogni volta mi rispondono.

(da Mamma storna – Diana Lanciotti – Paco Editore)

 

Capitolo 12

Il viaggio e l’arrivo in Sardegna avevano un sapore diverso, questa volta.
Per noi l’isola ha smesso da un pezzo di essere luogo di vacanza. Ci viviamo e ci lavoriamo. È la terra che amiamo, la nostra vera casa. La nostra patria.
In qualche vita precedente devo essere stata sarda, perché ogni volta che arrivo in Sardegna mi sento, di nuovo, finalmente a casa. Il resto è esilio, è lontananza. Farci ritorno è ogni volta una gioia, un’emozione grande.
Appena scendiamo dalla nave e le ruote della macchina toccano il suolo sardo, io e Gianni ci diamo reciprocamente il benvenuto, scambiandoci un bacio, e poi ci giriamo verso i nostri cani: «Ragazzi, benvenuti in Sardegna.»
È uno dei nostri riti, e va avanti da anni.
Però questa volta mancava uno dei protagonisti principali.
Paco non era salito volentieri in macchina. Di solito, quando dopo aver caricato i bagagli annunciavamo «Ragazzi, si parte!», si precipitava in garage sventolando la sua coda allegra, tallonato da Boris. Tutti e due col sorriso stampato sul muso. Anche loro amavano pazzamente andare in Sardegna.
La nostra gioia era la loro.
Stavolta, prima di decidersi, il nostro Pachino aveva perlustrato tutta la casa, nella speranza che alla fine quel burlone di Boris, dopo aver giocato a nascondino per più di un mese, si decidesse a saltar fuori.
Avevamo dovuto blandirlo e poi mostrargli uno dei suoi giochini pìopìo. Diversamente dal solito, gliel’avevamo lasciato a disposizione nel baule del fuoristrada (come sembrava enorme con solo lui dentro…) permettendogli di distruggerlo in pochi minuti, senza brontolare e rinfacciargli quant’era costato.
Fuori dal garage della nave ci accolsero un cielo turchese e il solito profumo dolce e pungente della macchia mediterranea. In qualsiasi stagione arriviamo, anche in pieno inverno, per la prima mezz’ora lasciamo aperti i finestrini per poterci inebriare degli odori dell’isola.
«Benvenuto in Sardegna», dissi a Gianni.
«Benvenuta in Sardegna», rispose Gianni e, ancor prima di scambiarci il rituale bacio, ci girammo a guardare Paco.
Il suo musetto nero deluso spuntava da dietro i bagagli.
«Benvenuto in Sardegna, Pachino.»
La coda bianca sventolò per un attimo, per bloccarsi subito dopo.
«Dai, piccolino, vedrai che ci divertiremo, noi tre. Come sempre.» Era una bugia, e lo sapevamo. Era, e lo sarebbe stato anche nei giorni successivi, quel continuo riferimento al passato, a quel “sempre” che era sempre stato, a far così male. Ovunque andassimo, nei luoghi dov’eravamo soliti andare, eravamo in tre e non più in quattro.
Tutti ci chiedevano spiegazioni, obbligandoci a rimuovere il coperchio che avevamo cercato di richiudere sulla scatola dei ricordi. Per fortuna la vigilia di Natale Daniela ci aveva mandato via mail una buffissima foto di Joy con un berretto da babbo Natale in testa, sotto cui aveva scritto: “Il babbino più bello che c’è”. E così, girando per casa, passeggiando in spiaggia, e in qualsiasi posto andassimo, continuavamo a chiederci: «Chissà se qui babbino si troverà bene…»

(…)

Il sole era tramontato da un pezzo, però la sera era ancora chiara, pervasa da una tonalità bluastra che rendeva il paesaggio magicamente monocromatico. Il mare respirava piano creando una risacca leggera che scrosciava sugli scogli, sotto di me. A vederlo da lontano sembrava immobile, ma sapevo che era solo in pausa tra una maestralata e l’altra. A volte le pause durano settimane, mesi. A volte solo pochi giorni, prima che il grandioso spettacolo del mare in tempesta vada di nuovo in onda.

(da La gatta che venne dal bosco – Diana Lanciotti – Paco Editore- dicembre 2013)

 

Qualcosa è cambiato

Anche le storie belle finiscono. Ma quando sono tanto belle, com’è la storia nostra con Paco, sono destinate a continuare anche dopo la fine terrena.
Accingendomi a mettere mano a questa nuova edizione di Paco, diario di un cane felice, otto anni dopo l’uscita della prima, non posso fingere che tutto sia come allora. Che nulla sia cambiato.
Qualcosa, purtroppo, è cambiato.
Paco, il nostro grande e meraviglioso Paco, ci ha lasciati.
È successo il 26 dicembre del 2006, nei modi e nei tempi che lui ha scelto e voluto. E anche nel luogo che lui ha scelto e voluto.
Paco era con noi da quasi quindici anni e ne aveva perciò sedici, più o meno. Ma la stessa malattia che un anno prima ci aveva portato via Boris (così, all’improvviso, colpendoci a tradimento), in lui aveva lasciato strascichi evidenti, con ripercussioni gravi sul fegato e poi sul cuore.
Il suo cuore così grande…
Quando non ce l’ha più fatta, quando ha deciso che le crisi si facevano troppo frequenti, che camminare su questa terra stava diventando ogni giorno più pesante, si è guardato intorno e ha scelto di andarsene là, nel luogo che da anni considero la mia vera casa, dove siamo stati tanto e tante volte felici insieme.
Ora lui riposa là, ai piedi del suo corbezzolo preferito, sotto il cielo e davanti al mare che amava.
Ha voluto, ha aspettato che succedesse là. E, così facendo, mi ha indicato la sua volontà.
E ora con noi c’è Tommi, brigante sardo arrivato (so che a qualcuno sembrerà strano e prematuro, visto il nostro attaccamento a Paco) due settimane dopo la morte di Paco.
Siamo andati al canile, laggiù, così, tanto per fare un giro, e lui era là, scricciolino di un mese e mezzo e due chili di peso.
E sembrava davvero che ci aspettasse.
Sono sicura che ci aspettava. Paco l’aveva informato.
Guarda che verranno due umani: lei bionda e lui alto. Avranno la faccia triste e il cuore stretto. E saranno lì non perché lo vogliono veramente. Ma perché l’ho deciso io per loro. Fai in modo di conquistarli. Non ti sarà poi così difficile. Sii te stesso. Come io sono stato me stesso, tanti anni fa, dietro le sbarre di quella gabbia gelida. Non ci vuole molto per farsi amare da loro. E quando ti ameranno, sarà con tutto il loro cuore. E per sempre.
Buona fortuna, Tommi. Ora tocca a te.

(da Paco. Diario di un cane felice – Diana Lanciotti – Paco Editore- 3a ed. febbraio 2016)

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