La prima guerra mediatica della Storia

Che si sarebbe trattato della prima guerra mediatica della storia si era capito sin dagli esordi quando, ancora prima che un soldato russo mettesse piede in Ucraina, l’inviata del TGLa7 si mostrava con l’elmetto in testa e dichiarava che i cittadini erano in fuga, i negozi svuotati, mentre alle sue spalle la gente camminava per le strade tranquilla, in mano le borse della spesa piene. Del resto avevano avuto due anni per esercitarsi, con la prima pandemia mediatica della storia. Grazie a un pesante martellamento di notizie-bomba sganciate con sistematica insistenza, hanno lacerato le menti, fiaccato la resistenza dei cittadini, facendoli aderire in massa al racconto univoco di una malattia incurabile e alla necessità di “rinunciare”. Che ora è diventato il mantra del cittadino modello, disposto a “rinunciare” a qualunque cosa (anche se non ne conosce bene motivi e utilità) per il bene della collettività. Della quale in realtà gli è sempre interessato meno di un fico secco. Ci ricordiamo tutti, somministrate più volte al dì secondo la ferrea posologia di un medicinale salvavita, le immagini dei camion con le bare di Bergamo, o delle terapie intensive con i malati attaccati ai respiratori, o i primissimi piani dei medici e degli infermieri devastati dalla fatica, o il suono incessante delle sirene, o i video dei soccorritori che, bardati come astronauti, caricavano con gesti concitati i malati sulle autoambulanze e poi via di corsa a sirene spiegate verso l’ospedale (e poco importa che quelle persone fossero state lasciate a casa per giorni, sole e abbandonate, in ossequio al criminale protocollo “paracetamolo e vigile attesa”). Oppure ricordiamo, nelle corsie, i balletti coreografici degli infermieri, pimpanti come appena usciti da una lezione di Don Lurio invece che dall’intubare i morenti, e la frase rassicurante “Andrà tutto bene”. Ci ricordiamo le mitiche conferenze stampa dell’allora premier Giuseppe Conte, con la tensione che saliva alle stelle a ora di cena in attesa che il monarca si palesasse ai devoti sudditi elencando le concessioni che graziosamente ci avrebbe elargito per i prossimi due/tre giorni, in attesa della prossima apparizione in cui ci avrebbe tenuti buoni, e grati, con nuove ridicole concessioni. Ci ricordiamo tutto, vero? È così che è iniziato il lavaggio dei cervelli, è così che hanno capito che potevano spingersi sempre più il là, che la rana bollita di Chomsky a loro gli faceva un baffo, e che gli Italiani neanche con l’acqua bollente da subito si sarebbero sognati di schizzare via. Ormai tutti prigionieri di una ragnatela intessuta con fili di acciaio dal più astuto dei ragni. Un incrocio tra Finanza, Politica, Potere, Avidità, Follia. Uno dei ragni più velenosi che si conoscano. Siamo nell’epoca in cui i governi sono diventati dei comitati d’affari per i quali la salute (fisica, mentale, economica) dei cittadini è l’ultimissimo dei pensieri. Anzi: un pensiero sgradito come una mosca che si posa su una cacca di mucca, poi ti ronza sotto il naso e si tuffa nella minestra. Il massimo del fastidio, insomma. E per tanto che uno sia animalista… l’istinto a schiacciarla è insopprimibile. È quello che i governi “democratici e pluralisti” europei (capofila quello italiano, orgoglioso e tronfio pioniere di tutte le scelte infami imposte dall’Europa e da Oltreoceano) stanno facendo con i cittadini che ronzano fastidiosamente pretendendo di pensarla a modo loro, avanzare diritti, salvaguardare la propria libertà: li schiacciano. E per farlo spesso si servono dell’informazione, asservita, complice collusa. Senza nulla voler togliere alla tragedia del covid, se ci prendiamo un po’ di distacco dal nucleo rovente della centrale mediatica in cui ci hanno intrappolati forse riusciamo a renderci conto che buona parte di ciò che abbiamo vissuto è il risultato di un’abile sceneggiatura, un copione scritto da un esperto incantatore di serpenti che ci ha portati a credere ciecamente a ciò che ci veniva detto e mostrato. E chi ha provato a sollevare dubbi, a fare domande, a raccontare una versione diversa è stato messo alla gogna, emarginato, sanzionato. Per non dire di quelli che si sono ribellati: marchiati a fuoco col vergognoso simbolo del negazionismo. Con una preparazione così certosina, che cosa volete che ci abbiano messo a trasferire l’esperienza fatta in due anni di pandemia alla guerra? La spettacolarizzazione del conflitto è qualcosa che non si era mai visto prima, eppure è sotto i nostri occhi, nelle nostre orecchie. Qualcosa che mancava a certuni per poter esibire la propria vena tuttologa di esperti del tutto e del niente, per potersi indignare, discutere, bollare chi la pensa diversamente come “negazionista” o traditore della causa. Che non si sa quale sia, ma l’importante è che tutti la seguano. Pesanti, pesantissimi, in questo frangente, il ruolo e le responsabilità dell’informazione. Un’informazione (o disinformazione) sempre più potente arma di distrazione di massa e di distruzione delle facoltà intellettive, che cerca l’effetto speciale facendo largo ricorso a fake news, foto e video fasulli o artefatti, che di reale hanno tanto quanto la Fata Turchina. Messinscene che per gli addetti ai lavori sono palesemente costruite come in una fiction, ma per gli spettatori sono realtà. E così assistiamo a un’ossessiva e ossessionante fiera di immagini, una sovrapposizione smodata di notizie che ci bombardano il cervello e lo stordiscono, impedendogli di prendersi una sana pausa per pensare, ragionare, capire. Non ci danno il tempo di riflettere su ciò che è appena accaduto, che subito ci inducono a pensare a qualcosa di diverso e possibilmente di peggio. Perché non possiamo concederci di usare la nostra testa: dobbiamo usare quella di chi, da oltreoceano, ha deciso che la verità è la sua e non ce n’è altra. In tanti hanno visto l’immagine di quella bambina ucraina col chupa-chups in bocca e un fucile tra le braccia, messa in posa dal padre sul davanzale di una casa diroccata. Una foto diventata virale, presa a simbolo di questa guerra. E che cos’è quella, se non manipolazione mentale? Un’immagine artatamente costruita come su un set fotografico, per indurre reazioni emotive forti e giustificare la scelta di inviare armi anziché portare la pace. Lo stesso obiettivo, di manipolare le menti e insinuare la paura e l’odio, se lo sono posto con quel video, fatto girare dalla propaganda ucraina, che mostra Parigi bombardata e devastata. Il messaggio è chiaro, anche se chiaramente tendenzioso: “Adesso tocca a noi, ma presto potrebbe succedere anche a voi. Noi siamo i vostri difensori: se cadiamo noi, cadrete anche voi.” Lo scopo è far indignare l’opinione pubblica, renderla compatta contro il nemico, facendole credere che nelle mire della Russia ci siamo tutti, e che all’invasione dell’Ucraina seguirà presto quella dell’Europa. È così che anche l’idea della guerra, dell’odio verso un popolo, si insinua come un virus. E piano piano rode le nostre menti e i nostri cuori, e crea gli anticorpi contro il nemico. Che in questo caso è il popolo russo. Non solo Putin, ma tutti i russi. Un’escalation di informazioni e immagini sempre più dure, sempre più a senso unico, con largo uso di finzioni per scuotere l’opinione pubblica e pilotarne i consensi. E farle legittimare, anzi chiedere, l’invio di armi anziché aiuti umanitari. Mandando avanti personaggi come un Di Maio che ogni volta che apre bocca rischia di provocare una terza guerra mondiale, anziché diplomatici di professione che conoscano l’arte della diplomazia e abbiano a cuore una soluzione rapida e pacifica della questione ucraina. Sempre più propaganda e sempre meno giornalismo. La comunicazione dei mass media punta sempre più spesso sul sensazionalismo, sulla spettacolarizzazione, sull’effetto pugno nello stomaco. È un modo molto più facile di arrivare al pubblico e attirarne l’attenzione, visto che la gara a chi si fa notare di più lo distrae molto e lo distoglie, rendendolo infedele e sempre in cerca dell’effetto più eclatante ed esplosivo. E chi è capace di offrirlo spunta gli ascolti più alti. Con ciò non voglio dire che la guerra non c’è, come non ho mai negato che ci fosse una pericolosa pandemia, ma le notizie dovrebbero essere date in modo asettico, nella loro “nudità”, senza sovraccaricarle e spettacolarizzarle. Invece è in atto una gara tra giornalisti a chi riesce a fare più scalpore, a suscitare pietà o sdegno più del suo collega-avversario. Una guerra tra giornalisti nell’ambito di una guerra tra stati. Un buon giornalista (e ce ne sono sempre meno) dovrebbe cercare la notizia e offrirla al proprio pubblico nella sua nudità, anche se non è “telegenica” o “fotogenica”. È questo il problema: che si cerca sempre di più il lato “estetico” della notizia, anziché la verità. Alla notizia “nuda” si sovrappone la notizia “travestita”. Non esiste quasi più il giornalismo d’inchiesta, ma solo l’acquisizione di veline che, passate indistintamente a tutti e riversate in articoli o servizi tv, appiattiscono e rendono l’informazione uniforme e conforme al Pensiero Unico Dominante. Utili burattini di questa recita, gli esperti militari più o meno accreditati, che ora imperversano in tv dopo aver soppiantato le virostar, e probabilmente si augurano sotto sotto che la guerra in Ucraina duri almeno quanto la pandemia, garantendo ospitate, notorietà, soldi, non meno che ai sederi che per due anni hanno occupato stabilmente i salotti tv discettando di virus e vaccini. Non si può essere neutrali, secondo questi guerrafondai da salotto. No: bisogna “fare gli eroi con le vite degli altri”, come dice Toni Capuozzo, uno dei pochi giornalisti che i trascorsi sul fronte di tante guerre e la capacità analitica legittimano a giudicare quanto sta accadendo e a criticare la posizione ambigua dell’Occidente. Un Occidente che rinuncia a una doverosa e intelligente neutralità per armare un popolo. Un “armiamoci e partite” che, se andrà bene, renderà tutti vincitori. Se andrà male, qualche lacrimuccia sui morti ucraini sarà sufficiente per lavare le coscienze. Non puoi essere neutrale, ma devi essere per forza dalla parte di Zelensky, un guitto messo a guidare una nazione così strategica. La peggior sfortuna che potesse capitare al popolo ucraino che, galvanizzato dalle sue bugie circa una supremazia militare dell’Ucraina, continua a resistere, quando è chiaro che resistere a un certo punto significa morire. E per tanto che la retorica dell’eroismo faccia presa sui cuori più teneri, morire non è mai una buona scelta. Soprattutto quando tutti gli indicatori darebbero per vincente l’entrata in campo della diplomazia. Quella seria. Quella che fa parlare il buon senso e tacere i cannoni. E i cretini. Come al solito i torti e le ragioni non stanno da una sola parte e anziché comportarsi da tifosi allo stadio o, peggio, riempire di armi e false speranze uno dei contendenti, gli stati non direttamente coinvolti dovrebbero essere portatori di pace. Perché per tanto che l’informazione tenda a spettacolarizzare ed enfatizzare, facendo apparire tutto come un grande gioco, là si muore. Diana Lanciotti   P.S. Un lettore mi ha appena segnalato questo interessantissimo intervento del professor Mearsheimer, politologo e studioso di relazioni internazionali. Si può condividere o no, ma è comunque un’analisi competente ed esaustiva, al disopra di ideologie e faziosità. In Italia chi fa queste analisi è messo al bando, come è successo al professor Alessandro Orsini, sospeso dall’università Luiss e dal quotidiano per cui scriveva. Il che fa dell’Italia un paese illiberale.   La guerra… ci mancava Tifo da… guerra I grandi strateghi europei… ovvero la disfatta del buon senso