Alla fiera dell’est. C’era una volta un pipistrello…

“C’era una volta un pipistrello di nome Pip. Lui volava, soprattutto di notte, volava e non gli piaceva molto quello che vedeva: uomini che vivevano ingannando o ammazzando il prossimo; uomini che devastavano le foreste, inquinavano i mari, prosciugavano i fiumi; uomini che pensavano solo ad accumulare ricchezze senza pensare a chi non aveva di che sfamarsi; uomini che comandavano sugli altri uomini, opprimendoli e rendendoli incapaci di reagire. Ogni notte scattava decine di fotografie di uomini cattivi e di uomini buoni e la mattina, prima di appendersi alla trave del tetto per riposarsi, le incollava: su un album nero le prime e su un album bianco le altre. Finché, un bel giorno, si accorse di non avere più spazi sull’album nero, ma di avere più di metà dell’album bianco ancora da riempire. Fu allora che scoprì che la cattiveria, su questa terra, supera la bontà. Questa scoperta lo intristì tanto da togliergli la fame. I suoi fratelli, vedendo che non mangiava i moscerini che gli passavano sotto il naso facendogli marameo, lo deridevano e gli chiedevano se si era innamorato. Ma Pip non era innamorato. Era solo triste, tanto triste. Così decise di andare a parlarne con Snek, il suo amico serpente, con il quale si confidava spesso e che in passato gli aveva dato prezioso consigli. Lo trovò che riposava all’ombra di un enorme Ginko biloba. «Snek», gli disse appendendosi a un ramo del ginko, «aiutami, ho scoperto una cosa terribile.» Snek lo guardò con la coda dell’occhio, un po’ infastidito. Dormiva profondamente dopo una lauta libagione di foglie di ginko (era l’unico serpente vegetariano del pianeta e aveva fatto un accordo con Ginko, facendogli firmare un impegno a non divulgare la notizia. Ne andava della sua reputazione di pitone reticolato). «Snek, svegliati, ascoltami!» lo incalzò Pip. Per un attimo Snek si pentì di essere vegetariano. La voglia di zittire quel rompispire ingoiandolo intero lo percorse dalla testa all’estremità opposta, e ci mise un po’ ad arrivare. Quando arrivò, Snek era già sveglio e con tutti i sensi all’erta. E nessuna voglia di assaggiare la pellaccia di un pipistrello noioso. «Sentiamo… che problema c’è, stavolta?» Ogni volta per Pip si trattava di un problema enorme… enorme se dimensionato ai suoi 20 centimetri scarsi di apertura alare, ma un’inezia per i 9 metri e 48 centimetri di lunghezza di Snek. «Ho fatto una scoperta terribile: gli uomini cattivi sono molti di più di quelli buoni.» «Caspita!» sbottò Snek, tremando per l’irrefrenabile voglia di ridere che stava per uscirgli dalle narici. Sapeva quanto Pip fosse permaloso, quindi decise di fingersi colpito da una delle verità più elementari che mamma pitonessa gli aveva insegnato sin da piccolo: che l’uomo è la più pericolosa specie abitante sulla terra. «Tieniti sempre lontano, Sniky: l’uomo è la bestia più feroce che esista», gli diceva sempre. E lui, pur di star lontano dalla bestia umana, aveva deciso di passare la sua vita all’ombra di Ginko e cibarsi delle foglie che l’amico fronzuto gli metteva a disposizione. «Caspiterina, Pip», rincarò, ricacciando in gola la risata. «Che brutta cosa mi stai dicendo.» «Sì, Snek, tremenda. Ho visto cose che voi serpenti non potete neanche immaginare…» E mentre Pip, con voce tremante, gli raccontava cose terribili che già sapeva, Snek riprese a dormire mantenendo l’occhio destro aperto per fargli credere di essere in ascolto. «Ma… Snek, mi hai ascoltato o dormivi?» Pip aveva finito di parlare da un paio di minuti e il lungo silenzio di Snek l’aveva insospettito. Sapeva che l’amico aveva tempi di reazione piuttosto lunghi… ma stavolta gli sembravano eccessivi. Snek aprì anche l’altro occhio e lo puntò minaccioso verso Ginko, che non l’aveva svegliato come d’abitudine dopo ventotto minuti, che era più o meno la durata dei monologhi di Pip. «Ma certo amico mio. Certo. È che… mi hai detto delle cose così terribili che faccio fatica a digerirle…» Si stirò, per dissimulare un ruttino. In effetti a pranzo aveva esagerato con le foglie di Ginko. Però la notte prima era piovuto, ed erano così fresche, verdi e tenere… Restarono a discutere per un’ora e solo quando l’alba iniziò a pennellare le nubi di rosa Pip salutò l’amico pitone e se ne tornò alla sua trave sotto il tetto, a diversi chilometri di distanza. Snek rimase a rimuginare per tutta la mattina. Per tanto che fingesse di non essere impressionato, le rivelazioni di Pip l’avevano sconvolto. E, soprattutto, a sconvolgerlo era l’aver accettato la richiesta di Pip senza neanche metterla in discussione. Sentendo l’inquietudine ingrossarsi nello stomaco e chiudergli la gola, restò a palleggiarsi sulla lingua la minuscola pallina che Pip gli aveva regalato: un oggetto affascinante, che ricordava un pianeta misterioso con tanti piccoli satelliti collegati da un filo quasi invisibile ma abbastanza resistente da impedir loro di sparpagliarsi in giro. La soppesò (aveva la leggerezza inconsistente di una piuma) e ripetendosi “È giusto così, è giusto così” si decise finalmente a ingoiarla. Trascorse i due giorni successivi senza sentire fame, con un leggero pizzicorio nella pancia, come se quella pallina rimbalzasse da una parete all’altra dello stomaco facendogli il solletico. Quando quella strana sensazione cessò, si sentì un po’ stanco. Ma aveva una missione da compiere. Salutò l’amico Ginko e strisciando e contorcendosi attraversò la foresta che lo separava dalla città. Non c’era mai stato, e se Ginko non gli avesse riferito le indicazioni di Nebbia, il Nibbio Bramino che aveva fatto il nido tra la sua chioma, non avrebbe saputo come comportarsi e intrufolarsi per non essere visto da quella marea umana che si affaccendava intorno a bancarelle stracolme di animali morti e di gabbie piene di animali vivi, alcuni ammutoliti dal terrore, altri che urlavano e piangevano in modo straziante. Alcuni cuccioli, gettati vivi in enormi pentoloni, lanciavano gridi da ghiacciargli il sangue nelle vene. “Ma che mondo è mai questo?” si chiese Snek, ben contento di non far parte della razza umana. Incominciava a pentirsi di aver accettato quella missione pericolosa, ma vedendo tanta sofferenza capì che, ora che sapeva, ora che vedeva, non avrebbe mai potuto tornare indietro e far finta che tutto quell’orrore non esistesse. Restò a guardare, nascosto sotto le ruote di un furgone, finché non vide quello che cercava: un ometto sbilenco con le braccia nodose come un albero avvizzito, che estraeva da una gabbia un cane col pelo grumoso di uno che non vede la spazzola da secoli. Il cane guaiva, cercava di liberarsi dal cappio, e l’omino prese a bastonarlo sulla testa finché quello, tramortito, smise di reagire. Era il momento che Snek aspettava. Si avvicinò furtivo all’uomo e con uno scatto felino gli si avvinghiò al collo. Strinse abbastanza da non dargli tempo di gridare, poi gli infilò la lingua fino alla gola. L’uomo restò immobile, gli occhi sbarrati più per la sorpresa che per la paura, e restò fermo ancora quando Snek gli scivolò via di dosso. Sembrava una statua. Passarono diversi minuti prima che tornasse in sé. Quando alla fine accadde, sorrideva. Guardò il cane che giaceva in terra, trattenuto dal cappio, e lo prese tra le braccia. Lo cullò, sussurrandogli parole che arrivarono fino alle orecchie di Snek, e quando il cane finalmente riprese a muoversi lo depose per terra, gli tolse il cappio e facendogli una carezza in testa lo spinse in mezzo al marciapiede. Il cane rimase fermo per qualche secondo, non capacitandosi di tutto quello spazio a disposizione, che non aveva mai avuto, poi si girò a guardare l’uomo scoprendo i denti in un ringhio. L’uomo gli si avvicinò, si inginocchiò davanti a lui e iniziò a cantare sottovoce, una cantilena dolce e struggente. Il cane abbassò le labbra e per un momento che parve lungo come la storia del mondo fissò gli occhi negli occhi dell’uomo. Poi si girò e con andatura incerta partì per esplorare i misteriosi territori della libertà. Snek era rimasto a osservare nascosto sotto il furgone. La prima parte della missione aveva funzionato, dandogli il coraggio per continuare. Per tutto il resto del giorno ripeté l’agguato a tutti gli altri mercanti di animali, la stretta calibrata al collo, la lingua in gola. E ogni volta poté assistere alla trasformazione degli uomini e alla liberazione di tutti gli animali in gabbia. Per quelli già uccisi non c’era più niente da fare, se non seppellirli pregando per le loro anime. Cosa che gli uomini si accinsero a fare, spargendo lacrime e intonando canti. Era già quasi l’alba quando Snek fece ritorno casa. Si sentiva più leggero e con una gran fame. Lo stomaco, liberato da tutte quelle palline che si erano generate dalla prima che Pip gli aveva donato, e che lui aveva soffiato nelle gole degli uomini del mercato, era pronto per una deliziosa colazione in compagnia di Ginko. Da quel giorno, le palline si trasmisero da uomo a uomo, in tutto il pianeta. E il pianeta conobbe finalmente la pace, l’amicizia e l’amore tra tutte le creature.” Fine della favola. La favola della trasmissione del covid dal pipistrello, al serpente, all’uomo. Una favola, appunto. E come tutte le favole finisce bene. Ma quello che si è verificato davvero, quello che ci hanno raccontato del passaggio del coronavirus dal pipistrello al serpente all’uomo è probabilmente a sua volta una favola. Anche se non finisce bene. Stavo riflettendo sui pericoli del Pensiero Unico Dominante, questo strisciante tentativo di reprimere la libertà di pensiero e anche le libertà individuali di movimento, di culto, di lavorare, diritti sacrosanti che ci hanno tolto e non intendono ridarci a breve, se non a spizzichi e bocconi. E mi è uscita questa favoletta. Ve la regalo perché la raccontiate ai vostri figli, ai vostri nipoti. E quando avrete finito, fate loro una carezza da parte mia. Ma voi, voi cercate la verità sotto il cumulo di disinformazioni che ogni giorno ci propinano, ottenendo un effetto, voluto, di repulsione. Tanto che molte persone, disorientate da notizie tanto diverse e contraddittorie, si rifugiano nel “non voler sapere”. Chi non accetta la favola della trasmissione da parte degli animali all’uomo è stato tacciato di complottismo per mesi. Come si fa ogni volta che qualcuno si ribella al Pensiero Unico Dominante e cerca di portare alla luce un punto di vista diverso. Ora qualcuno, anche tra gli “esperti”, sta dicendo che forse si è trattato di un incidente, e che il virus è uscito per errore da un laboratorio. Magari un giorno scopriremo addirittura che non è stato per sbaglio, ma che l’hanno accompagnato per le vie del mondo. Ma a dirlo si rischia un’altra accusa di complottismo, e magari di essere schedati e segnalati dalla novella Santa Inquisizione, la task force antifakenews che, complottisticamente pensando, parrebbe essere messa lì proprio per monitorare la comunicazione, reprimere il dissenso e indirizzare l’informazione nell’ambito dei recinti stabiliti da chi muove le pedine sul grande scacchiere mondiale. Sono tante le teorie più o meno complottiste (o definite tali da, chi bollandole come tali, vuole privarle di valore) ma, zittirle per “obbligarci” a pensarla come qualcuno ha deciso che dobbiamo pensarla, è tirannia. Molte informazioni sono da prendere con le pinze, certo, ma ciò non significa che dobbiamo rigettarle o, peggio, cancellarle. Dobbiamo continuare a informarci, usare la nostra testa, il nostro senso critico, scremare ma senza che siano gli altri a dire come e cosa. Usando il nostro cervello, senza gettarlo all’ammasso. Ne va della nostra libertà, mentale ma anche fisica. Qualcosa sta succedendo. È in atto una guerra a chi dissente, con denunce e minacce di chiusura a siti che offrono un’informazione indipendente, non allineata. Magari non veritiera… però come può lo Stato (o una task force pagata da noi… i controllati) stabilire chi deve… vivere e morire, giornalisticamente parlando? È o non è abuso di potere? È o non è totalitarismo? Ma forse è proprio quella la china che abbiamo intrapreso. Spesso con la nostra complicità, perché non abbiamo il coraggio delle nostre idee. È il coraggio che manca, sostituito dal mugugno e ancora più spesso dalla rassegnazione. La malattia peggiore che possa … Leggi tutto Alla fiera dell’est. C’era una volta un pipistrello…